Onorevoli Colleghi! - La qualità della scuola è fondata sulla qualità della condizione (norme generali) e della funzione (prestazioni essenziali ovvero standard) dei docenti.
      Infatti, l'insegnante non è un soggetto perfettamente fungibile ad ogni trasformazione strutturale, normativa e organizzativa della scuola. Ne è invece l'elemento costitutivo, soprattutto quando il sistema in cui esso opera si avvia a rapidi e continui cambiamenti.
      Le difficoltà di sviluppo dell'autonomia e del decentramento delle competenze alle scuole dipende in gran parte dalla inadeguata formazione in ingresso e in itinere dell'insegnante, nonché dal mancato sviluppo e aggiornamento delle sue professionalità e competenze.
      In effetti, nei dieci anni di discussione sull'autonomia delle scuole, non si è operato conseguentemente:

          per modificare il reclutamento (la legge n. 124 del 1999 è la sanzione del vecchio sistema dei concorsi e delle sanatorie);

          per riscrivere lo stato giuridico degli insegnanti in coerenza con il nuovo paradigma organizzativo e didattico (flessibilità) delle scuole;

 

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          per dare pertinenza alle competenze richieste ai docenti con il trasferimento alle scuole di nuovi poteri e funzioni tecniche, organizzative e didattiche (in particolare per quanto riguarda il piano dell'offerta formativa - POF).

      È significativo che ciò sia avvenuto - ma con effetti non del tutto positivi - solo ed esclusivamente per la figura del dirigente scolastico e del direttore dei servizi generali e amministrativi, creando un oggettivo squilibrio e una asimmetria tra le finalità educative della scuola e il suo funzionamento amministrativo.
      Non è una consolazione sapere che anche in altri Paesi europei il problema si pone con le stesse caratteristiche (anche se nell'Unione europea le carriere ci sono), e in modo altrettanto impellente, e con l'unica differenza che in tali Paesi le difficoltà di cambiamento si sono tradotte in una crisi diffusa e drammatica dell'offerta di insegnanti. Ma anche l'Italia si sta avvicinando a questo limite, e non ci deve ingannare l'affollamento delle graduatorie.
      Resta, comunque, il fatto che senza una definizione chiara della funzione docente la scuola, come macchina amministrativa, manca del suo naturale carburante professionale. Finora il Parlamento (fin dalle origini del nostro sistema scolastico) si è occupato dell'insegnante essenzialmente come dipendente pubblico, alla stregua di tutti gli altri impiegati dello Stato (si vedano i provvedimenti sul suo stato giuridico del 1906, 1923, 1957 e 1974).
      A partire dagli anni ottanta, ad esso sono state assicurate - come agli altri impiegati pubblici - la contrattazione e tutte le libertà sindacali, accentuando la sua dipendenza, piuttosto che la sua autonomia e responsabilità professionali.
      Ma può esistere una vera autonomia delle scuole senza un insegnante professionista, capace di vera responsabilità per i risultati?
      Sembra di no, a giudicare dallo stato di frustrazione e di disagio che gli insegnanti continuano a manifestare, nonostante i grandi progressi che nel dopoguerra si sono registrati nella sua condizione contrattuale e anche retributiva.
      La proposta di legge che ora si sottopone alla Camera, recante norme generali sullo stato giuridico degli insegnanti delle istituzioni scolastiche e formative, parte dall'analisi di alcuni dei motivi di tale disagio.
      A) In primo luogo, la dissoluzione dello stato giuridico tradizionale, di carattere sostanzialmente impiegatizio, non sostituito da una nuova concezione dell'insegnante, adeguata al modello di autonomia definito dalla legge n. 59 del 1997. Il vecchio stato giuridico ex lege n. 477 del 1973 è stato demolito dalla successiva «privatizzazione» ovvero, più precisamente, dalla contrattualizzazione del rapporto di lavoro, che ha forzato, nonostante i vincoli contenuti nell'articolo 2 della legge n. 421 del 1992 (sulla base dei quali è stato emanato il decreto legislativo n. 29 del 1993, successivamente abrogato, le cui norme sono confluite definitivamente nel decreto legislativo n. 165 del 2001), i confini del campo riservato alla legge e ai princìpi generali della professione.
      A causa di questo sconfinamento, il profilo professionale, ma anche l'autogoverno della professione (organi collegiali territoriali), la valutazione, gli standard, il codice deontologico, la carriera, la formazione iniziale e in servizio, sono rimasti come «residui» di una azione normativa che si è tutta squilibrata sul lato contrattuale, senza alcun vincolo. E non poteva essere diversamente, dato il silenzio dell'azione e della proposta legislativa.
      Il processo di «impiegatizzazione» dei docenti (favorito dal numero decisamente impressionante: quasi un milione - nel 1957 erano 261.000), da timore e «profezia» teorizzata negli anni settanta, ha avuto la sua compiuta realizzazione nel contesto di una regolamentazione pattizia vasta e profonda, che ha inciso anche sull'immagine sociale, la percezione di sé e gli stessi comportamenti quotidiani dei docenti.
      B) In secondo luogo, l'istituzione di una dirigenza scolastica di tipo amministrativo, non come leadership educativa. La stessa definizione della dirigenza scolastica è avvenuta

 

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concretamente (decreto legislativo n. 59 del 1998, oggi articolo 25 del decreto legislativo n. 165 del 2001), in mancanza di un coerente sviluppo della carriera, in polemica con la funzione docente e non come naturale sviluppo della carriera, per cui oggi il dirigente scolastico appartiene per profilo, per trattamento economico, per modalità di reclutamento e per funzioni più alla carriera burocratico-amministrativa che non a quella di tipo educativo e didattico.
      La conseguenza è che le scuole sono oggi prive di una vera e propria leadership, un vuoto che non può essere riempito né dalle «funzioni obiettivo» (tutte elettive e provvisorie), né tanto meno dai collaboratori del dirigente - compreso il vice dirigente - scelti dal dirigente stesso senza criteri di competenza e merito professionale. Ambedue le soluzioni sono un surrogato della carriera docente che dovrebbe invece essere fondata essenzialmente su standard, valutazione, sviluppo, professionalità, specializzazione e responsabilità per i risultati.
      C) In terzo luogo, la mancata autonomia contrattuale (area autonoma di contrattazione) dei docenti e delle articolazioni di tale funzione. Per quanto riguarda l'autonomia contrattuale della professione (nonostante l'esplicita previsione dell'articolo 21, comma 17, della legge n. 59 del 1997 e nonostante le promesse), l'insegnante - caso unico in tutto il pubblico impiego - si trova ancora accomunato con tutto il personale dipendente della scuola - compresi gli ausiliari. Tale scelta politica ha avuto come conseguenza quella vera e propria «anomalia» organizzativa costituita dall'istituzione della rappresentanza sindacale unitaria (RSU) eletta in ogni istituzione scolastica, dove l'insegnante può essere rappresentato da operatori e da lavoratori che nulla hanno a che fare con la sua professione e che sono chiamati a definire per via pattizia aspetti specifici dell'attività professionale docente dei quali non hanno conoscenza e competenza alcuna.
      Comunque, resta la contraddizione di un organismo negoziale (RSU) in un contesto organizzativo che non gode di alcuna autonomia o discrezionalità contrattuale né gestionale (per quanto riguarda il personale), dato che il consiglio della scuola (ovvero il dirigente scolastico) in Italia - a diversità di altri Paesi con altra tradizione - non ha il potere di assumere o di licenziare personale, ma dipende dalle norme amministrative per quanto si riferisce alla gestione del bilancio, dell'organico e di ogni altra materia attinente al governo del personale, che resta accentrato.
      D) Infine, nel contesto normativo dell'autonomia, della dirigenza e dei nuovi ordinamenti, gli organi collegiali territoriali non sono riformabili. Nonostante il tentativo - mai reso attuale - di riformare tali organi ai sensi dell'articolo 21 della legge n. 59 del 1997, la professione docente non gode ancora di un riconoscimento di autogoverno della professione, ad eccezione della disciplina, peraltro gestita con un sistema e con procedure inefficienti per complicazioni e lungaggini.
      Il problema degli organi collegiali va posto su nuove basi, per i seguenti motivi:

          1) dopo l'approvazione della citata legge n. 59 del 1997 è intervenuta la riforma della Costituzione (legge costituzionale n. 3 del 2001), che - come conseguentemente anche la cosiddetta legge «La Loggia» - assegna agli enti locali un importante ruolo gestionale, come già avviene nelle province autonome di Trento e di Bolzano;

          2) con la finanziaria 2003 (legge n. 289 del 2002) è stato sostanzialmente abolito il consiglio scolastico distrettuale, che in trent'anni non è mai decollato;

          3) il consiglio scolastico provinciale - dopo l'istituzione dei consigli scolastici locali - non ha più senso, dato che era nato per servire da «consulente» del dirigente scolastico provinciale. Oggi - con la riforma dell'amministrazione - l'ufficio scolastico provinciale non ha nessuna autonomia decisionale (se non per delega) ed è diventato una struttura decentrata della direzione scolastica regionale (regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 347 del 2000);

 

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          4) infine, il Consiglio scolastico nazionale ovvero, nella nuova formulazione, il Consiglio superiore della pubblica istruzione (decreto del Presidente della Repubblica n. 233 del 1999) ha perso ogni significato. Esso era stato concepito fin dalle origini (1857) come organo di garanzia dei docenti contro la burocrazia amministrativa. Ma oggi che il rapporto di lavoro è stato contrattualizzato, tale garanzia è offerta dalla contrattazione e dalla rappresentanza sindacali, non da un organo a metà tra il tecnico (consulenza) e il corporativo (controllo e disciplina del personale).

      Circondati da organi collegiali di ogni tipo (e composizione), garantiti da una contrattazione sempre più minuta, che ne ha esaltato la funzione impiegatizia, privi di prospettive di carriera, gli insegnanti restano ancora, in Italia, senza una immagine riconoscibile. Finiti gli entusiasmi di pochi degli anni settanta e i riferimenti ideologici forti delle ideologie contrapposte, per gli insegnanti - non solo in Italia - resta la strada del professionalismo (stato giuridico, formazione iniziale, cultura specialistica condivisa, codice deontologico, carriera, autogoverno della professione), cioè della ridefinizione del ruolo e delle competenze in rapporto ai nuovi compiti della scuola di massa in una società della conoscenza.
      La presente proposta di legge tiene conto di questa analisi e propone la ridefinizione di un nuovo statuto professionale dei docenti, che sia rispettoso delle prerogative della legge, da un lato, e della contrattazione collettiva, dall'altro.
      Infatti, la legislazione vigente (articolo 2 della legge n. 421 del 1992 e articolo 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001) attribuisce alla legge (o ad atti pubblici assunti in attuazione della legge) il compito di regolare gli aspetti di stato giuridico dei pubblici dipendenti che hanno rilevanza organizzativa e le competenze dei vari organi. In particolare, l'articolo 2, comma 1, lettera c), n. 6), della legge n. 421 del 1992, prevede, tra le materie che devono essere regolate con legge, ovvero sulla base della legge o nell'ambito dei princìpi della stessa posti con atti normativi o amministrativi, «la garanzia della libertà di insegnamento e l'autonomia professionale nello svolgimento dell'attività didattica, scientifica e di ricerca».
      Tale disposizione attua il principio della libertà di insegnamento di cui all'articolo 33, primo comma, della Costituzione. Da sempre, infatti, lo strumento essenziale per disciplinare la garanzia delle libertà costituzionali è quello legislativo, che, essendo il prodotto delle Assemblee rappresentative, assicura la partecipazione di tutte le posizioni politiche (maggioranza e opposizione) al processo decisionale e il più ampio controllo da parte dell'opinione pubblica.
      D'altra parte, la legge, nel dare attuazione al principio costituzionale della libertà di insegnamento, non può limitarsi alla mera definizione della libertà, ma ha il compito di stabilire regole precise con riferimento ai vari aspetti che incidono su di essa, come, ad esempio, il modo con cui si identificano le attività del docente, l'eventuale tipologia della funzione docente, i rapporti fra il docente e la scuola, i rapporti fra la scuola e gli altri pubblici poteri, le procedure di assunzione, la stabilità del rapporto, i princìpi su eventuali «carriere», eccetera. In altri termini, la libertà di insegnamento va tutelata con norme di legge riguardanti non solo lo stato giuridico dei docenti «in senso stretto», ma anche molti aspetti dell'organizzazione del servizio pubblico dell'istruzione. Del resto, atteso che il docente non può rinunciare alla propria posizione di libertà, tutti gli ambiti che integrano la disciplina della libertà di insegnamento devono ritenersi sottratti al contratto collettivo, risultando non disponibili da parte dei diretti interessati.
      In tale prospettiva il concetto di «stato giuridico» include, tra l'altro: l'identificazione (in che cosa consiste) e la configurazione (identica o differenziata) della funzione docente; i contenuti e i limiti della libertà di insegnamento; le procedure di reclutamento e la «carriera»; le cause e le modalità di cessazione del rapporto di

 

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lavoro; le relazioni con l'istituto scolastico, con gli organi collegiali, con il dirigente scolastico, con gli organi ministeriali e degli altri enti pubblici; gli organismi rappresentativi della funzione docente; le modalità e le procedure per la valutazione e il controllo dell'attività dei docenti.
      Ma c'è un ulteriore principio costituzionale che impone la disciplina legislativa degli aspetti testé menzionati: la riserva di legge in materia di organizzazione amministrativa di cui all'articolo 97 della Costituzione. Com'è noto, tale disposizione esige che le linee fondamentali dell'organizzazione della pubblica amministrazione siano disciplinate con legge. Ebbene, i predetti aspetti costituiscono una parte essenziale dell'organizzazione amministrativa di istituzioni pubbliche quali sono quelle scolastiche, per cui non potrebbero costituire oggetto di contrattazione collettiva. In tal senso, peraltro, sembra essersi mossa anche la più recente giurisprudenza costituzionale.
      Infatti, a proposito della figura del docente tutor, quale prevista dal decreto legislativo n. 59 del 2004, a fronte delle tesi secondo cui le relative disposizioni del decreto legislativo (articolo 7, commi 5 e 6, e articolo 10, comma 5) costituivano violazione della riserva costituzionale di contrattazione sindacale, la Corte costituzionale ha affermato che «la definizione dei compiti e dell'impegno orario del personale docente, dipendente dallo Stato, rientra [...] nella competenza statale esclusiva di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione, trattandosi di materia attinente al rapporto di lavoro del personale statale» (così al punto 6.1. del «Considerato in diritto» della sentenza n. 279 del 2005). Analogamente, con riferimento alla disciplina dell'utilizzo del personale docente interessato a una diminuzione dell'orario di cattedra (articolo 14, comma 5, del decreto legislativo n. 59 del 2004), la Consulta ha ribadito che la regolamentazione dell'utilizzazione di personale docente statale «rientra senza alcun dubbio nella competenza esclusiva dello Stato di cui all'articolo 117, comma secondo, lettera g), della Costituzione (organizzazione dello Stato)».
      In altri termini, anche nella giurisprudenza costituzionale trova conferma l'assunto per il quale la maggioranza degli aspetti in cui si sostanzia lo stato giuridico dei docenti scolastici rientra nella materia costituzionale dell'organizzazione amministrativa dello Stato, nella quale vige, ai sensi del combinato disposto degli articoli 97 e 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione, il principio della riserva di legge dello Stato. Infatti, lo stato giuridico dei docenti, pur coinvolgendo - ovviamente - il lavoro dei medesimi, non può essere meramente ricondotto alla nozione di «rapporto di lavoro» e, dunque, rimesso (almeno parzialmente) alla contrattazione collettiva, ma costituisce le fondamenta su cui è edificato il servizio pubblico dell'istruzione.
      Come accennato, anche le modalità e le procedure per la valutazione e il controllo dell'attività dei docenti rientrano nella esposta nozione di «stato giuridico» e, dunque, nell'ambito riservato al legislatore statale. In tale contesto, il Parlamento potrebbe introdurre, andando a colmare un vuoto attualmente esistente nell'ordinamento, forme di valutazione e di responsabilità del docente, che dovrebbero essere improntate alla predeterminazione dei criteri della valutazione medesima (quale, ad esempio, il raggiungimento di obiettivi formativi predefiniti).
      Partendo da questi presupposti, la proposta di legge in esame (tenuto conto anche del documento del 9 giugno 2004 elaborato in sede ARAN, sul quale le parti sociali di cui all'articolo 22 del vigente contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto scuola hanno ritenuto di poter unanimemente convenire rispetto all'obiettivo, assunto dalla predetta norma contrattuale, di individuare meccanismi di carriera professionale per i docenti) definisce quanto segue:

          1) uno stato giuridico essenziale, che affermi i valori e i princìpi (a partire da quelli contenuti nella Costituzione) su cui fondare la professione dell'insegnante a

 

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tutti i livelli, in tutte le istituzioni scolastiche e formative (articoli 1 e 2);

          2) una carriera, articolata in tre livelli (insegnante iniziale, ordinario ed esperto), che sia fondata su modalità e criteri di valutazione basati sul merito professionale; e una articolazione del ruolo che garantisca alle istituzioni scolastiche e formative autonome professionalità e competenze adeguate, certificate, stabili e valutate (articolo 2);

          3) l'istituzione della figura del «vicedirigente delle istituzioni scolastiche e formative», quale ulteriore livello di carriera (articolo 4);

          4) organismi di autotutela professionale (standard, prestigio, immagine, promozione eccetera), che sia la garanzia «dinamica» dello sviluppo della professione e che sappia escludere con i mezzi e con le tutele opportuni coloro che non possono essere definiti insegnanti (articoli 5, 6 e 7);

          5) una contrattazione snella, nell'ambito di un'area autonoma, che intervenga sulle materie che sono ad essa proprie e quindi sui punti che non incidono sulle competenze professionali e sulla organizzazione della carriera (in particolare: orario, retribuzione, mobilità, nonché riconoscimento dell'autonomia contrattuale di una categoria di professionisti) (articolo 8).

      In sostanza, la proposta di legge intende proporre una professione che sappia autogovernarsi per la qualità, l'autonomia e la piena responsabilità della funzione, definita come «primaria risorsa professionale della Nazione».

 

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